Quando un mese fa la scuola è stata chiusa… il mio pensiero è andato ai ragazzi che, nel corso del tempo, ho avuto la fortuna di conoscere, ascoltare, osservare, ragazzi a cui strappare il lampo di un sorriso in una saletta colloquio, in classe, talvolta nei corridoi tra una campanella e un’altra.

Ragazzi a cui di solito non pensa nessuno se non per nominarli con le sigle più svariate: BES, DSA, ADHD, etichette da portare sulle spalle come “croci”.

Ragazzi che hanno conosciuto e conoscono cosa significa vivere l’emergenza, come noi la stiamo conoscendo oggi, fin dalla loro venuta al mondo, ragazzi che aspettano di riempire i polmoni d’aria quando, finalmente, ogni mattina tirano dietro di sé la porta di casa affrettandosi verso la scuola, nell’illusione di chiudere così anche le ferite e la sofferenza di un infinito presente.

Ragazzi fragili, fatti di promesse deluse e appuntamenti mancati, affamati di un orizzonte di senso in mezzo al nulla.

E mentre ogni giorno ci raccomandiamo senza sosta di restare a casa… non posso fare a meno di pensare a chi guardandomi dritto negli occhi, un giorno mi ha detto… ”oggi si esce prima da scuola… ma a casa non ci torno… perchè c’è “lui” che se la prenderà con mia madre per i miei capelli corti, per i miei vestiti da “maschio”, e per mille altre cose e … la musica negli auricolari non basta a non sentirli… vado ad aspettare al parco fin quando “lui” non sarà uscito di casa per i suoi giri…”

E mi chiedo, mentre tutti noi ci raggomitoliamo nelle nostre calde tane cercando di arginare il pericolo… dove sarà il rifugio sicuro di questi ragazzi, adesso che le ferite fanno più male, adesso che tace anche il cielo a cui guardano dalle loro finestre.

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